Faccia da scimmia
Sono successe un sacco di cose dall’ultimo post, sostanzialmente riassumibili nei seguenti tre punti: 1)la Marvel fa uscire un film deludente 2) la Marvel fa uscire un’ottima nuova serie 3) l’Expo universale apre e, improvvisamente, il mondo scopre che la cosa più importante del Brasile è una rete enorme su cui arrampicarsi. Naturalmente anche la biologia non è rimasta ferma così, in poco più di un mese, abbiamo genomi di mammut, teropodi vegetariani nuovi e un interessante articolo sulla funzione del pene negli insetti del genere Lygaeus. Cercheremo di rifarci per il tempo perduto, bentornati al Volo del Dodo signori. La prima arrampicata la offriamo noi.
Il 9 Maggio scorso ho partecipato alla finale italiana di FameLab, scroccando così viaggio a Milano e due biglietti per Expo. Sono arrivato secondo e, se siete i più carichi, potete vedervi il video della finale in cui rinuncio a comportarmi da persona adulta per il bene della Scienza©.
Nonostante sia un astrofisico, Luca Perri ha meritato il primo premio alla grandissima (ciao Luca, divertiti alle Canarie maledetto) quindi striscioni e inni nazionali quando affronterà i barbari del nord alla finale di Cheltenham. Comunque sia in 3 minuti si dice tanto, ma non tutto. Quindi per voi o mio popolo di aficionados ho preparato un cofanetto contenete la SUPERPLATINUM EDITION della presentazione. Se non vi piace la riportate in negozio e vi fate fare il buono per andare a vedere il nuovo Mad Max.
Nel grande sacco delle risposte ad hoc c’è anche quella alla domanda “Qual è la prima cosa che guardi in una donna/uomo?”. Il viso. Tralasciando la veridicità o meno di questa affermazione è innegabile che le facce giochino un ruolo importante nelle interazioni sociali umane. Anche le cose che rispondereste se foste sinceri lo fanno, ma quella è un’altra storia.
Tutti i primati, dall’uomo alle scimmie cappuccine (Cebus sp.), sono attirati da occhi, nasi e bocche dei loro simili. La semplice presenza di questi elementi all’interno di un viso forma una struttura, chiamata configurazione di primo ordine, verso la quale siamo attirati già poco dopo la nascita. I piccoli di macaco giapponese (Macaca fuscata) prestano istintivamente più attenzione ad una serie di puntini disposti a triangolo invertito (due occhi e un naso stilizzati) piuttosto che agli stessi puntini disposti in fila. La stessa cosa accade nei piccoli di Homo sapiens. Un gibbone (Hylobates agilis) di 13 giorni ha già sviluppato un amore particolare nei confronti dei disegni a forma ovoidale, una sorta di faccia stilizzata, rispetto a quelli raffiguranti altre figure geometriche. A due mesi di età espone alla Biennale.
Ma una faccia è più della somma delle sue parti. Mano a mano che cresciamo cominciamo a considerare una faccia come un unicum, andando ben oltre la semplice configurazione di primo ordine. La disposizione dei vari elementi nel viso nello spazio, il colore della pelle ed eventuali altre caratteristiche di una faccia nuova vengono tutte considerate dal nostro cervello quando ci viene mostrato un volto. Questo insieme, chiamato configurazione di secondo ordine, contiene un sacco di informazioni in più rispetto ai semplici schemi di prima, ma può anche portarci a situazioni paradossali. Vista l’abitudine dei primati adulti a considerare il viso in maniera olistica* può capitare che l’attenzione verso il singolo dettaglio passi in secondo piano. Se per esempio ci presentano una faccia “assemblata”, creata da pezzi appartenenti ad individui diversi, facciamo molta più fatica a riconoscerne i diversi proprietari rispetto a quando vediamo le singole parti che la compongono. Questo test (che non mi sono inventato ora ve lo giuro) è servito svariate volte nel mettere in luce questa nostra incapacità, condivisa peraltro dalle sempre inquietanti scimmie ragno (Ateles geoffroyi).

a) Ma chi è questo tizio? b) Aaaah, è l’unione di batman-costume-con-capezzoli e di colui che ha fatto la rotta per Kessel in meno di 12 Parsec! Immagine modificata da Parr et al. 2011
Ma torniamo alla funzione delle facce. Perché nei primati sono così variabili?
Ci sono diversi motivi per uscire dalla massa e sfoggiare parti del corpo diverse dal solito. Ad esempio gli individui con caratteri poco frequenti o strani all’interno di una popolazione potrebbero essere favoriti nella loro ricerca di un partner. Oppure questi soggetti divergenti potrebbero venire ignorati dai predatori più abituati alle loro varianti più comuni (ehi, ma dove lo avete già sentito questo discorso? Ma in questo magico post). C’è però da dire che, nel caso di H. sapiens, la variabilità delle facce è estesa a tutti i sessi e a tutte le fasce di età. È quindi difficile che l’estrema diversificazione delle sue componenti sia solo il risultato dei processi di cui parlavamo prima.
Riconoscere i nostri simili è però una necessità presente in ogni momento della nostra vita. Venire scambiati per qualcun altro è quasi sempre un’esperienza poco piacevole. Evitare di essere riconosciuti da un familiare, da un alleato o dal tizio a cui vigliaccamastella ho prestato quei 20 euro è disastroso per una persona. In questo la faccia gioca un ruolo da protagonista. A differenza di altri animali che preferiscono utilizzare l’odore o le vocalizzazioni per riconoscersi, noi guardiamo in faccia un nostro conspecifico per capire se lo abbiamo già incontrato. E il riconoscimento individuale sarà più facile se un individuo possiede una serie di tratti tra loro divergenti e disposti in molte combinazioni diverse.
Ma la selezione naturale ha davvero agito sulle nostre facce per permetterci di usarle come metodo di identificazione? La risposta parrebbe banale ma seguitemi un secondo, dopotutto le facce non sono l’unica cosa variabile nel nostro corpo. Le impronte digitali sono molto diversificate e oggi noi le usiamo come metodo per identificarne il portatore, ma il nostro utilizzo non è stato la forza di selezione che ha portato alla loro variabilità. Esistono quindi almeno due tipi di caratteristiche fisiche utili per il riconoscimento: le identity cues, tratti che permettono di identificare un individuo da un altro ma che non sono stati selezionati per quella funzione, e gli identity signals tratti che invece lo sono stati. Le impronte digitali fanno parte della prima categoria mentre le facce, in teoria, dovrebbero rientrare nella seconda. Rileggete il paragrafo un’altra volta che vi aspetto e intanto mi faccio una parta di “Indovina Chi” con Tim, la scimmia ragno.
-È biondo?-
-UAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH!!!!-
-Cristo Tim, io non faccio tutte ‘ste scene quando a Risiko prendi l’Oceania al secondo turno.

a) Diversità nei volti umani b) Pinguini omologati al sistema che non si ribellano che cioè zio. Immagine modificata da Sheehan and Nachman 2014
Per cercare di capire se la selezione naturale avesse davvero agito sulle nostre facce per permetterci di usarle nel riconoscimento Michael Sheehan e Michael Nachman hanno utilizzando un insieme di dati fisici e genetici. Per prima cosa i due hanno sfogliato un database dell’esercito degli Stati Uniti contenente migliaia di foto e misure fisiche di militari statunitensi. Prendendo 18 distanze lineari tra caratteri facciali e 46 distanze tra caratteri non facciali Mike&Mike hanno scoperto che le prime possedevano una più ampia variabilità delle seconde. La maggior parte dei tratti non facciali erano anche correlati tra loro (es. la lunghezza e la larghezza delle mani) mentre i tratti facciali non lo erano. Questa assenza di correlazione accentua la diversità delle facce, perché un naso grande non vuole per forza dire una bocca grande e così via. Non paghi di ciò i due hanno utilizzato i dati del 1000 genomes project per andare a vedere la variabilità nelle mutazioni nel DNA associate a cambiamenti facciali. Per ragioni di brevità io nel video di FameLab dico che hanno guardato “ I geni per la posizione del naso, degli occhi…” ma, in realtà, la situazione è un po’ più complessa. Tutte le mutazioni considerate nel nello studio di Sheehan e Nachman sono SNPs (si legge *snips* o *sneeps* se siete amici di Salveenee), cambiamenti di una singola base nella sequenza del DNA che, in parte, possono essere associati alla variazione di alcuni caratteri facciali. Paragonando la variabilità tra questi SNPs e quelli associati ad altre caratteristiche corporee, come l’altezza, Sheehan e Nachman hanno trovato di nuovo una maggiore diversità nei primi. Presi insieme, dati genetici e morfologici supportano la teoria che le nostre caratteristiche facciali siano state selezionate come identity signals, non semplicemente utilizzate in un secondo momento come identity cues.
Questo lavoro è stato condotto sull’uomo, un primate per cui abbiamo un sacco di dati di diversa natura, magari in futuro sarebbe interessante andare a vedere se lo stesso discorso vale per altre specie. Io non lo farò perché ho paura che Cesare mi dica che non sono scimmia.
* Olistica è la parola che ho scelto di inserire nel post nell’ambito dell’iniziativa Parole Grosse Per Periti Tecnici Industriali #PGPPTI.
FONTI
Sheehan, M., & Nachman, M. (2014). Morphological and population genomic evidence that human faces have evolved to signal individual identity Nature Communications, 5 DOI: 10.1038/ncomms5800
Pvero Lombroso, lui ci credeva veramente che ci fosse una correlazione tra i tratti somatici e altro 😦