Le nuove frontiere dell’antispecismo

ResearchBlogging.orgSalve, sono di nuovo io, il vostro Francesco Lami, che torna a scrivervi spinto dal desiderio di diffondere la conoscenza ma soprattutto dal capo che fa la voce grossa. Chi non ha mai avuto a che fare, o almeno sentito parlare, di quegli animalisti forse anche benintenzionati, ma di sicuro irritanti, che predicano il cosiddetto “antispecismo”? Bene, non c’entrano niente, e il titolo era solo un clickbait – che parlando di animalisti, mi sembra appropriato.

Il parassita più popolare del cinema è in realtà un parassitoide (LINK: http://it.wikipedia.org/wiki/Parassitoide). Immagine www.tmag.it

Il parassita più popolare del cinema è in realtà un parassitoide. Immagine http://www.tmag.it

Il mondo si divide in due categorie di persone: la prima è composta da quegli individui che, amando l’ordine e la pulizia, si liberano di tutto ciò che ritengono superfluo per massimizzare la loro efficienza. E poi ci sono quelli che, come me, non butterebbero via niente (perché non si sa mai che possa tornare utile in futuro) e si ritrovano la scrivania ricoperta del ciarpame più vario. I casi più gravi di solito vengono presi di mira dai canali di documentari americani , perché dopotutto è a questo che serve la divulgazione scientifica. Tornando a noi, forse sono proprio le persone con le scrivanie più disordinate quelle che si occupano di biologia della conservazione, perché in fondo il principio è lo stesso: è meglio conservare il maggior numero di specie possibili, non si sa mai che possano rivelarsi utili. E se sterminando questo muschio destabilizzassi l’intero bosco? E se la pelle di questa rana contenesse molecole utili in campo medico?

Esiste però un gruppo di organismi che viene generalmente ignorato e addirittura schifato e osteggiato anche dai conservazionisti: i parassiti. A parte poche eccezioni come la lotta biologica, questi organismi e i loro amici parassitoidi e patogeni non sembrano godere della nostra approvazione. Proprio come gli animalisti di Facebook predicano l’amore verso gli animali solo a patto che siano adorabili mammiferi domestici perché gli insetti fanno un po’ schifo, così anche i biologi si prodigano per salvare la biodiversità senza includere tutti quegli organismi che vivono alle spalle di altri.

… ‘sti ca**i, starete pensando. Non è che ci voglia un genio per capire perché i parassiti non hanno molti fan club: si appiccicano agli altri organismi, sfruttandoli e facendoli indebolire e soffrire, rendendoli più suscettibili alla malattia e alla morte. Senza contare il fatto che molti di loro hanno abitudini che difficilmente verrebbero considerate raffinate in molte società civili. Voglio dire, alcuni strappano la lingua ai pesci e si sostituiscono ad essa, e come se non bastasse sono fonte d’ispirazione per film di dubbia qualità.

Sabethes cyaneus: solo perché succhiano sangue non significa che certe zanzare non possano sfoggiare colori vivaci e stivali alla moda. Immagine da www.projectnoah.org

Sabethes cyaneus: solo perché succhiano sangue non significa che certe zanzare non possano sfoggiare colori vivaci e stivali alla moda. Immagine da http://www.projectnoah.org

Non sorprendono quindi editoriali come questo di qualche anno fa, scritto da Janet Fang (la cui scrivania, al contrario della mia, è probabilmente molto sgombra e ordinata). L’autrice, intervistando vari entomologi, si chiede come sarebbe il mondo se magicamente sparissero tutte le zanzare. Nonostante vengano elencati alcuni dei ruoli che questi insetti svolgono negli ecosistemi di tutto il mondo, secondo Fang la scomparsa di questi insetti non porterebbe a catastrofi ecologiche di grave entità. Visto che il ruolo delle zanzare negli ecosistemi è molto poco studiato e vista l’enorme abbondanza di questi insetti, affermazioni di questo tipo sono in effetti estremamente contestabili e molto poco fondate (come del resto lo sarebbe l’affermazione opposta secondo cui cancellare le zanzare porterebbe sicuramente a catastrofi ecologiche immani), e l’editoriale di Fang sembra a prima vista poco più che una ripicca stizzita nei confronti di bestie fastidiose, la cui abitudine di regalare pomfi pruriginosi del resto non piace a nessuno. Ovviamente però ci sono ragioni molto più serie per voler ridurre e contenere, se non proprio sterminare, le zanzare: alcune di esse (una piccola minoranza delle 3500 specie conosciute) sono tristemente note come vettori di patogeni estremamente pericolosi  per l’uomo, tra cui la malaria.

Anche per la conservazione di animali estremamente rari i parassiti possono rappresentare una minaccia, visto che riducono le capacità di sopravvivenza. Il programma di recupero del furetto dai piedi neri (Mustela nigripes) ha previsto anche la deparassitizzazione degli esemplari catturati e in cattività, e delle colonie delle loro prede preferite, i cani della prateria (Cynomys leucurus), in modo da ridurre il rischio di malattie. Oggi il furetto scodinzola ancora, mentre è probabile che siano andati perduti per sempre alcuni dei suoi parassiti, fra cui un pidocchio e un protozoo. Ma se i parassiti sono una tale rottura, perché preoccuparsi della loro dipartita?

Si potrebbe persino sostenere che il fine principale per cui conservare gli organismi a vita libera è la tutela de i loro parassiti” – Donald A. Windsor, Equal Rights for Parasites (1995).

In questo famoso quanto generalmente inascoltato appello, il biologo Donald Windsor afferma che la conservazione della biodiversità e quella dei parassiti sono inscindibili – in effetti visto che ogni specie sula Terra viene parassitata, e che di solito ha più di un parassita, è persino possibile che i parassiti rappresentino la maggior parte della diversità biologica sul pianeta, o comunque una fetta molto consistente. La maggior parte di queste specie non colpisce l’uomo, quindi non c’è motivo di sterminarli per autodifesa. Ma c’è di più.

La nobile tenia non è popolare quanto lupi e tigri. Immagine fineartamerica.com

La nobile tenia non è popolare quanto lupi e tigri. Immagine fineartamerica.com

Come accennavo all’inizio, questa grande preponderanza nella biosfera fa sì che i parassiti abbiano un peso notevole sulla regolazione degli ecosistemi, esercitando una funzione di controllo sulle popolazioni dei loro ospiti in modo non dissimile da quello che fanno i predatori. Quante volte nei documentari si sentono oscenità tipo “I leoni selezionano gli erbivori deboli e malati e quindi servono per migliorare la specie”, che fra l’altro è una bestemmia che rasenta il creazionismo? I predatori non “servono” per migliorare le prede (non c’è scopo nell’evoluzione) ma di certo influenzano la loro abbondanza e le loro interazioni col resto dell’ecosistema – spesso promuovendo la biodiversità, se tendono a colpire una specie dominante avvantaggiandone altre che altrimenti languirebbero. Nell’immaginario pubblico e del conservazionista, sono nobili animali che, uccidendone altri, svolgono un ruolo nell’economia della natura. Ma allora perché i parassiti, che svolgono esattamente la stessa funzione, dovrebbero essere visti diversamente? Perché i parassiti vengono condannati e i predatori elogiati per i danni che causano ad altre specie? La risposta sta probabilmente nel fatto che molti grandi predatori stanno bene sulle magliette o in rivisitazioni animate di Amleto, mentre i parassiti vengono perlopiù assimilati al concetto di malattia e sofferenza. Ciò non toglie che questa discriminazione non abbia più senso di quella fatta dai fanboy che si lamentano de L’uomo d’acciaio perché ha un tono troppo dark e serio, salvo poi avere sogni erotici sul Joker de Il cavaliere oscuro, film che si prende altrettanto sul serio ma ha meno esplosioni colorate e di conseguenza dal mio punto di vista è automaticamente inferiore.

Alcune delle possibili conseguenze ecologiche della riduzione della biodiversità dei parassiti possono essere immaginate osservando il fenomeno delle specie invasive – quegli organismi che vengono diffusi al di fuori del loro areale naturale per opera dell’uomo, e che nella loro nuova casa hanno uno straordinario successo, spesso a scapito di altre specie. Uno dei fattori che contribuiscono alla fortuna di queste specie potrebbe essere l’assenza di parassiti. Nei nuovi habitat l’invasore è arrivato da poco tempo, non ha una lunga storia di coevoluzione coi parassiti e quindi ci sono solo poche specie di parassiti in grado di colpirlo, al contrario che nell’habitat d’origine – inoltre, solo una frazione dei parassiti dl paese d’origine segue l’invasore continuando a controllarne la popolazione. I dati sembrano supportare questa ipotesi, in quanto in un gran numero di specie invasive di piante e animali, incluso il comune ratto nero Rattus rattus,  il numero di individui infestati e di specie di parassiti è molto inferiore nei nuovi habitat rispetto a quelli originari. Questa “liberazione dal nemico” (enemy release hypothesis) è chiaramente un enorme vantaggio nei confronti delle specie native. Visto che le specie invasive sono considerate una delle più grandi minacce globali alla biodiversità, questo ci aiuta a capire quali possono essere alcune delle conseguenze ecologiche della riduzione del numero di specie di parassiti.

La nutria (Myocastor coypus) è un roditore sudamericano invasivo in Europa, dove fra i vari danni tende anche a scavare gallerie erodendo gli  argini dei canali. I parassiti potrebbero essere la chiave per comprendere le invasioni biologiche? Immagine modificata da www.cesenatoday.it

La nutria (Myocastor coypus) è un roditore sudamericano invasivo in Europa, dove fra i vari danni tende anche a scavare gallerie erodendo gli argini dei canali. I parassiti potrebbero essere la chiave per comprendere le invasioni biologiche? Immagine modificata da http://www.cesenatoday.it

Come tutti gli organismi, i parassiti possono potenzialmente essere utili all’uomo anche in modo più diretto. Per esempio, studiando la loro biologia potrebbero venir fatte importanti scoperte biomediche, utili persino nella lotta contro gli stessi parassiti o altri patogeni, che ufficialmente è lo stesso principale motivo per cui quel simpaticone del vaiolo  non vola ancora lassù con il dodo. Anche la biologia della conservazione potrebbe in realtà inaspettatamente beneficiare dell’esistenza dei parassiti. L’evoluzione del DNA dei parassiti, che hanno vita più breve e un maggior numero di generazioni, tende a essere più veloce di quella dei loro ospiti, e quindi più adatta a ottenere informazioni sulla genetica di popolazione nel breve periodo. I parassiti che vengono trasmessi in prevalenza verticalmente (da genitori a figli, o meglio da popolazioni madri a popolazioni figlie) potrebbero essere considerati al pari di geni e usati per ricostruire la storia e la diversità genetica degli animali minacciati, spesso cruciali per studiare piani di conservazione. Bisogna però stare attenti a non scegliere parassiti che si possono facilmente trasmettere orizzontalmente, cioè per semplice contatto fra due individui qualsiasi (come una pulce che salta da un animale all’altro), o questo potrebbe confondere la genealogia delle popolazioni degli ospiti. Anche questo tipo di parassiti in realtà può avere una sua utilità: studiandone la genealogia si possono ricostruire i contatti avuti fra diverse popolazioni di ospiti, e quindi l’esistenza di eventuali corridoi ecologici da tutelare e potenziali scambi genetici fra popolazioni separate, o fra animali selvatici e domestici. Lo studio dei parassiti può quindi darci informazioni su eventi demografici e biogeografici difficilmente rilevabili, ma tutte queste informazioni andranno perdute se sterminiamo prima i parassiti.

Sappiamo che i parassiti e i patogeni hanno plasmato profondamente la storia evolutiva dei loro ospiti,in una continua corsa alle armi della sopravvivenza. Non sappiamo invece molto sulle moderne estinzioni dei parassiti e dei patogeni, visto che ci preoccupiamo più che altro di distruggerli. I più specializzati potrebbero estinguersi silenziosamente insieme con i loro ospiti, in un processo detto coestinzione, oppure venir consciamente debellati come nel caso del furetto dai piedi neri. I più generalisti e meno schizzinosi potrebbero trarre giovamento da questa ridotta competizione o dall’impatto antropico sull’ecosistema, e diventare più virulenti o attaccare nuovi ospiti, uomo incluso – DUN! DUN! DUN!. Predire il futuro è difficile. Per stare sul sicuro, la prossima volta che riordiniamo la scrivania è meglio fare mente locale e considerare con attenzione ogni cianfrusaglia prima di cestinarla, in modo da non fra qualcosa di cui un giorno potremmo pentirci.

 

FONTI

Clay, K. (2003). Conservation biology: Parasites lost Nature, 421 (6923), 585-586 DOI: 10.1038/421585a

Dunn, R. R. (2005). Modern insect extinctions, the neglected majority. Conservation Biology, 19(4), 1030-1036.
Fang, J. (2010). Ecology: a world without mosquitoes. Nature News, 466(7305), 432-434.
Gompper, M. E., & Williams, E. S. (1998). Parasite conservation and the black-footed ferret recovery program.
Nichols, E., & Gómez, A. (2011). Conservation education needs more parasites. Biological Conservation, 144(2), 937-941.
Whiteman, N. K., & Parker, P. G. (2005). Using parasites to infer host population history: a new rationale for parasite conservation. Animal Conservation, 8(2), 175-181.
Windsor, D. A. (1995). Equal rights for parasites. Conservation Biology, 9(1), 1-2.

 

Un Commento

  1. Fernando Lami

    Anche se il tipo di umorismo di cui è qua e là spalmato non è particolarmente nelle mie corde, ho particolarmente apprezzato questo articolo perché ha il pregio di avermi fornito spunti di meditazione che sinora non mi avevano mai toccato, il che, data la mia non più verde età, è un evento sempre più raro.
    Faccio questa affermazione sperando che nessuno voglia attribuirne la causa ad una casuale coincidenza di cognomi.
    Parassiti, eh…..?
    Confesso che io sono uno di quelli che spesso d’estate si trovano a desiderare che le zanzare siano cancellate dalla faccia della terra, e mi chiedo se veramente possano esistere persone che non hanno mai avuto questo desiderio. Immagino che un oltranzista della conservazione, grattandosi furiosamente ovunque, esclamerebbe inorridito: “Ma se le zanzare scomparissero sarebbe una catastrofe immane!”. “E perché?”. “E’ chiaro, perché allora non ci sarebbe più cibo a sufficienza per i pipistrelli e quindi scomparirebbero i pipistrelli”. “E allora?”. “Ma che diamine, se scomparissero i pipistrelli, allora non ci sarebbe più nessuno che ci libera dalle zanzare!”.
    “Ah, ho capito”.
    (per sgombrare il campo da ogni illazione infondata, se scomparissero i pipistrelli a me dispiacerebbe a prescindere, perché li trovo animali molto simpatici, anche se una volta sono stato l’involontaria causa della morte di uno di loro che inopinatamente è venuto a schiantarsi sulla mia faccia)
    Tutto sommato, un non addetto ai lavori come me è portato a pensare che l’equilibrio degli ecosistemi possa essere concepito in due maniere completamente diverse. La prima immagina questo equilibrio come un castello di carte: togli anche una sola carta in basso, e va tutto a carte (appunto) e quarantotto. La seconda può vedere questo equilibrio come uno dei ben noti “mobiles” di Calder: togli o modifichi un elemento e questo sposta in un nuovo equilibrio gli elementi più prossimi, un po’ meno quelli più lontani, finché tutto si assesta in un nuovo equilibrio.
    Verosimilmente la verità, anche in questo caso, sta nel mezzo, credo però molto più vicina alla seconda concezione che non alla prima.
    Del resto il numero delle specie, mi dite voi, non è di centinaia di migliaia, ma di milioni, e quelle che scompaiono ogni giorno potrebbero essere probabilmente circa un centinaio. Se all’inizio c’erano necessariamente poche specie e adesso sono milioni, ho il sospetto che non sia sbagliato pensare che le nuove specie che nascono ogni giorno siano di più di quelle che nello stesso tempo si estinguono.
    Gli umani che nascono ogni giorno sono più di quelli che muoiono ed in conseguenza di ciò siamo già arrivati alla problematica cifra di sette miliardi. Gli umani che sono morti dalla comparsa della nostra specie sono decisamente di più di quelli attualmente viventi. Se non fossero morti, o se adesso venissero tutti miracolosamente resuscitati, quella si che sarebbe una catastrofe epocale.
    Non può essere la stessa cosa per le specie ?
    Preoccuparsi della perdita di modelli unici di DNA è certo giusto, ma l’avvicendarsi delle specie non si identifica col concetto stesso di evoluzione? Non è forse grazie alla scomparsa di tante specie precedenti che si è creata quella biodiversità che vogliamo tutelare ?
    (Informazioni sull’autore del commento: trattasi di persona che ritiene che quando si conservano troppe cose si dimentica dove si sono messe e si finisce anche col dimenticare di averle. Ciò è peggio che non averle, perché non solo non le puoi utilizzare, ma ingombrano e rendono poco vivibile il tuo ambiente. Perciò amo le campagne di eliminazione selvaggia. Nonostante ciò la mia scrivania è molto più incasinata di quello che vorrei).

    • francescolami

      L’estinzione è sempre stata parte naturale dell’evoluzione, quindi dal punto di vista “morale” fra l’estinzione dei dinosauri (o qualsiasi altra grande estinzione) e le estinzioni causate oggi dall’uomo; una non è più “giusta” o “sbagliata” delle altre. Dal punto di vista pratico, però, c’è un enorme differenza: l’estinzione dei dinosauri non ci tocca, quelle che accadono oggi possono danneggiarci. E’ vero che probabilmente pochissime o a volte addirittura nessuna specie di un ecosistema è, da sola, assolutamente fondamentale per il funzionamento dell’ecosistema stesso. Ma rimane una decisione poco saggia cominciare a togliere pezzi a caso dal castello dentro cui siamo, senza sapere quali sono quelli portanti, o quanti pezzi non portanti possiamo togliere prima che la struttura s’indebolisca a tal punto da crollare comunque. Può essere vista come innaturale la volontà dei conservazionisti di mantenere gli ecosistemi il più stabili possibile, quando grandi estinzioni (in cui il tasso di scomparsa supera quello di nascita di nuove specie) capitano anche senza l’aiuto dell’uomo; ma il fatto è che noi otteniamo determinati vantaggi dalla stabilità di questi ecosistemi (i cosiddetti servizi ecosistemici), e quindi abbiamo interesse a mantenerla. E quando mai un organismo che agisce nel proprio interesse è visto come innaturale? Quando è arrivato l’asteroide, i dinosauri non hanno pensato “Pazienza, è parte del ciclo della vita, lasciamo che accada”. I dinosauri sono morti perchè non potevano prevedere l’asteroide e prendere misure per fermarlo, altrimenti l’avrebbero fatto. Noi invece possiamo prevedere e limitare fino a un certo punto i danni dell’attuale estinzione di massa. Anche perchè il mondo dopo un’estinzione di massa non è un posto confortevole: possono volerci milioni di anni prima che la situazione si stabilizzi e il numero di specie ritorni ai livelli precedenti all’estinzione.
      Passando all’esempio di zanzare e pipistrelli, raramente le interazioni sono così semplici: le zanzare “servono” (brutta espressione!) a nutrire i pipistrelli e i pipistrelli a mangiare le zanzare, ma questi due gruppi non abitano in una bolla di vetro separata dal resto del mondo; entrambi interagiscono con innumerevoli altri organismi. Solo per fare qualche esempio, i pipistrelli predano molti altri insetti, e sono a loro volta predati da animali come i rapaci; le zanzare non solo sono prede per una vasta gamma di animali terrestri e acquatici (i quali a loro volta sono prede di altri animali e così via), ma interagiscono anche con le piante nutrendosi del polline o fungendo da impollinatori, e coi microorganismi acquatici in quanto le larve sono filtratrici. Se sparissero, potrebbe (POTREBBE) quindi esserci un effetto-farfalla (o effetto-zanzara) su una qualsiasi di queste componenti dell’ecosistema, e su quelle ad esse a loro volta collegate.
      Il principio di precauzione, che in altri contesti viene usato a sproposito, in biologia della conservazione è fondamentale perchè le conseguenze potenziali sono molto serie (e lo sappiamo perchè in molti casi queste conseguenze non sono più solo potenziali – si prendano a esempio le specie invasive o la deforestazione). Personalmente comunque ritengo che anche in quei casi in cui saltasse fuori che nessuna componente di un particolare ecosistema abbia per noi un’utilità diretta o indiretta, non dovremmo rammaricarci troppo di spendere qualche soldo in più per la sua conservazione. Dopotutto, anche quadri, monumenti e reperti archeologici sono “inutili” ma nessuno si scndalizza quando vengono raccolti fondi per conservarli e valorizzarli. E pensare che quadri, monumenti e reperti archeologici non sono neanche vivi, e di solito non possono competere con la fantasia e la bellezza dell’evoluzione.

      • Fernando Lami

        Concordo sostanzialmente su tutto quanto dici, e l’avrei sottoscritto anche prima di aver letto la tua risposta. Del resto molto di quanto da me detto (vedi pipistrelli) non aveva pretesa di esulare dal tono umoristico.
        Però un dubbio ce l’ho, anche se non ho gli strumenti per analizzarlo a fondo: il cosiddetto effetto farfalla, suggestivo per molti e tipico dei sistemi complessi, appare nella pratica esplicarsi appieno relativamente ad ambiti limitati nel tempo e nello spazio (so che, anche se disponessi di una infinita potenza di calcolo e di una sovrabbondante mole di informazioni, non potrò mai sapere ora se alle 17 del 3 marzo a Pieve di Cento pioverà oppure no, ma non mi serve molto per avere la ragionevole certezza che, almeno nei prossimi anni, in Italia d’inverno farà più freddo che non d’estate). In altre circostanze, le dinamiche esemplificate da quello che chiamiamo effetto farfalla potrebbero integrarsi con altre esemplificabili da quello che potremmo chiamare “effetto pendolo”: qualcosa che, spostato dal suo equilibrio, tende a ritornarvi (vedi il riferimento a Calder). Come queste dinamiche si integrino è certamente un problema insolubile sul piano generale. Come approccio mi chiedo: quando si verifica una modificazione irreversibile di un sistema, abbiamo elementi per ritenere che la causa agente sia, in approssimazione !, sempre esterna al sistema stesso ?
        Scusatemi per le confusive divagazioni.

        • francescolami

          Generalmente gli effetti della perdita di specie vengono studiati a livello di contesti spaziali limitati (singoli ecosistemi), per cui è teoricamente possibile capire qual’è la causa delle modificazioni (anche nel caso teorico della scomparsa delle zanzare gli effetti potrebbero essere molto diversi in diverse aree). Non c’è dubbio in ogni caso che il pendolo della natura, anche quando spostato dall’uomo, prima o poi tornerà quasi sempre al suo posto dopo una perturbazione, ma la domanda è: quanto ci metterà? E nel frattempo noi come ce la passeremo? Rimarremo aggrappati al pendolo o saremo sbalzati via?
          Ed è anche vero, come dicevo prima, che sono esistite ed esistono tuttora tante altre forze oltre all’uomo che possono portare a perturbazioni e estinzioni di massa; questa però è una ragione in più per evitare almeno quei danni su cui abbiamo il controllo (che al momento sono di gran lunga i più rilevanti sulla terra). Come diceva De Andrè, “Tanto più che la carogna è già abbastanza attenta, non c’è alcun bisogno di reggerle la falce”

  2. nicholaswolfwood

    Deparassitizzateli tutti! Dio riconoscerà i suoi!
    Cmq i parassiti sono bestie affascinanti, roba che ti chiedi: ma come è venuto in mente alla prima Cymothoa di mettersi al posto della lingua di un pesce?
    Cmq l’interrogtivo sollevato intristisce pure me: chissà quanti parassiti strani si sono estinti senza che noi lo sapessimo.

    Ciò è molto triste, in ogni caso la mia scrivania è linda e le zanzare devono morire, se ci vanno di mezzo pure i pipistrelli avevano solo da essere più pucciosi!

    Grazie per l’articolo!

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