L’ovario è mio e me lo gestisco io
Disclaimer: l’autore di questo articolo è scettico e prevenuto nei confronti dello studio che sta per tentare di esplicare. Ma nessun futuro (speriamo) scienziato vuole fare la figura di un Urbano VIII qualunque, quindi si manda giù il boccone amaro e si accettano i risultati dello studio. Finchè qualcuno che ne capisce meglio del sottoscritto per quanto riguarda la statistica e la metodologia non stroncherà il tutto. No dai, scherzo. Forse.
L’etologia è generalmente considerata come la scienza che studia il comportamento.
Ovviamente animale, direte voi: nessuno si sarebbe mai aspettato di vedere un Lorenz seguito da una fila di gerani o un Tinbergen studiare il comportamento nuziale e territoriale di una pianta grassa.
Perchè ovviamente le piante sono sessili, quantomeno la stragrande maggioranza di loro.
Per un animale, invece, un comportamento (o la modificazione di quest’ultimo) si manifesta soprattutto attraverso il movimento, sia esso lo spostarsi da un posto all’altro oppure semplicemente esibire un display . Ma se leggiamo il comportamento come risposta di un organismo a stimoli interni (all’animale) ed esterni (dall’ambiente), la storia cambia. Per anni ci sono stati studi su queste risposte da parte delle piante, ma prettamente a livello fisiologico: le interazioni tra piante e altri organismi, benchè comunissime (e fondamentali) in natura, non avevano mai portato a delle prove solide riguardo a veri e propri “comportamenti” di risposta causati da altri esseri viventi.
Diamo un’ultima definizione prima di buttarci nell’esperimento vero e proprio, visto che ci servirà per capire alcune sottigliezze: un comportamento adattativo di qualsiasi essere vivente è un reazione a stimoli complessi e di varia natura, in seguito ai quali l’organismo deve mettere insieme le informazioni del suo stato fisiologico e le informazioni che arrivano dall’ambiente in modo da attuare la risposta più vantaggiosa per se stesso. Insomma, non è un comportamento alla ’ndo cojo cojo, nè tantomeno passivo.
Veniamo ai nostri due attori protagonisti: Il crespino (Berberis vulgaris), un arbusto europeo abbastanza comune, e Rhagoletis meigenii, un dittero della famiglia dei Tephritidae.
Al secondo piacciono un sacco i semi del primo, tanto da deporci direttamente dentro le uova in modo che la larva abbia la pappa pronta una volta nata. Facile e comodo.
Mica tanto comodo per il crespino, visto che i semi parassitati non saranno molto utili per perpetuare la sua stirpe, anzi. Quindi che fare di quel seme, ce lo teniamo o lo buttiamo via?
L’aborto passivo dei semi è noto in molte specie vegetali, soprattutto in caso di risorse nutritive limitate. Meglio pochi ma buoni, insomma, che se non mi arrivi alla pubertà non sei servito a nulla. Allo stesso modo, l’aborto attivo ha lo scopo di proteggere i semi rimasti sani, espellendo quelli parassitati da qualche ospite indesiderato.
Il frutto del crespino ha solitamente 2 semi, mentre il nostro moscerino femmina depone soltanto un uovo per ogni frutto (qui un filmato della deposizione). Alla larva basterebbe anche un solo seme per svilupparsi, visto che in quei pochi frutti con un seme solo ce la fa benissimo: ad ogni modo, più ce n’è meglio è, ed è solita papparseli entrambi quando viene deposta in un frutto con due semi. Per sapere se un seme è parassitato oppure no è sufficiente un’analisi al microscopio ottico per osservare i buchi prodotti dall’insetto femmina durante l’ovodeposizione.
Vengono analizzate popolazioni provenienti da due ambienti differenti, alcune da una foresta di conifere (poca luce, ma più acqua e nutrienti) e altre da un arbusteto arido in una zona rocciosa (molta luce, ma con conseguenti lacune di H20 e elementi nutritivi).
Chiamiamo per un attimo parassitismo e risorse nutritive “fattori limitanti”, cioè che potrebbero porre un limite a ciò che la pianta potrebbe fare. Insomma, c’è da capire se influiscono oppure no sulla “scelta” della nostra pianta. Mille mirabolanti analisi statistiche dopo, i nostri scienziati teutonici arrivano alla conclusione che nessuno dei fattori limita, da solo, il comportamento del crespino, bensì agiscono sempre insieme: quindi il nostro vegetale deve gestire due cose alla volta nel momento in cui deve decidere che fare dei propri semi (“Sticazzi”, direte voi, ma conosco gente che non è in grado di camminare e masticare un cicca allo stesso tempo).
Ed è proprio il loro effetto simultaneo a promuovere effettivamente l’aborto attivo da parte della pianta.
Si scopre infatti che l’aborto dei semi è superiore in presenza di agenti limitanti, ma statisticamente rilevante solo se legato al numero di semi presenti nel frutto. L’aborto in frutti contenenti due semi è molto maggiore rispetto a quelli contenenti solo un seme. Questo per quale motivo? Semplicemente abortire un seme parassitato può salvare il suo “fratello di frutto”, mentre non abortire un seme “solitario” può essere vantaggioso, visto che non necessariamente la larva si svilupperà.
La riproduzione non è una scienza esatta, mettiamola così.
Qui gli scienziati ci tolgono pure un altro dubbio:”Ma non è che il seme muore semplicemente di malattia portata da qualche patogeno che si infila insieme all’uovo di Rhagoletis?”.
Qualcuno potrebbe, certamente, ma la differenza di aborti in frutti con uno e due semi è talmente rilevante da fugare ogni dubbio in proposito.
Si tratta quindi, a detta di chi ha condotto lo studio, di comportamento adattativo: la pianta massimizza il suo guadagno in termini di fitness (cioè di semi, quindi “figli”, a cui potrà dare un futuro) in maniera variabile a seconda degli stimoli ambientali (disponibilità di nutrienti e parassitismo) e dalle sue condizioni interne (in questo caso, dal numero di semi nel frutto).
Per mettere la ciliegina sulla torta, un ultimo aneddoto: Rhagoletis parassita anche un’altra pianta, Mahonia aquifolia. Nonostante quest’ultima sia una specie affine al nostro crespino, non reagisce però allo stesso modo del nostro eroe vegetale del Pro Choice Movement. Probabilmente la causa ha a che fare con il tempo. Mahonia venne introdotta in Europa solo 200 anni fa, troppo poco per permettere la coevoluzione di meccanismi di difesa nei confronti di Rhagoletis.
FONTI
Grand guest! Per me l’argomento è difficile. Due o tre domande alla rinfusissimma;
– quindi la stragrande maggioranza delle piante è passiva e al massimo prova a beccarci (quando deve rispondere)?
– qual è la differenza fra comportamento adattivo e una risposta a determinati stimoli sviluppata nei secoli (grazie anche ad un immutato parassitismo)?
– se si cambia parassita e/o condizioni ambientali, quanto bene può rispondere tale pianta?
– qual è il più grande parassita del mondo?
Ciao Lorenzo, sono Fabrizio, l’autore dell’articolo. Premetto che non sono un botanico (proprio per nulla), ma appunto uno studente di etologia, quindi prendi con le pinze quello che sto per scrivere:
-l’aborto passivo è una risposta fisiologica, evolutivamente avvantaggiata perchè permette di risparmiare energie, non basata su un “””ragionamento””” come quello funzionante nell’articolo di cui sopra: quel seme è parassitato, inutile che investo energie nel suo sviluppo dato il rischio che non darà progenie (che può essere più o meno alto, a seconda dell’ambiente, del periodo dell’anno, del parassita e della pianta stessa). Quale sia la percentuale di piante che abortiscono nel mondo vegetale non te lo saprei dire, per quanto riguarda il periodo migliore per un aborto ti direi, a spanne, che dovrebbe essere “il prima possibile”: meno energie vengono “sprecate” , più efficiente è il meccanismo.
-Un comportamento è appunto un comportamento. Capiamoci, è solo una parola che usiamo noi per convenzione, il comportamento in sè E’ una risposta fisiologica (come tutto nella biosfera), però che passa attraverso un meccanismo decisionale più complesso, variabile e regolabile. Una risposta evoluta nel tempo nei confronti di un parassitismo immutato può semplicemente aver favorito quelle piante che ci azzeccavano di più “per caso” (leggasi “perchè portatrici di una mutazione che facesse si che la risposta fosse quella”), senza necessariamente aver sviluppato un comportamento adattativo come quello di cui sopra.
– Non bene, direi. Innanzitutto se cambi parassita cambi verosimilmente il modo in cui sfrutta il suo ospite, potrebbero cambiare le modalità di parassitismo, quanto danno infligge alla pianta, dove la colpisce… insomma, tutto. L’ambiente inficerebbe molto la capacità di risposta immunitaria della pianta, per prima cosa, dato che non è nel suo ambiente naturale e di sicuro non in ottima forma.
Senza contare che se cambi ambiente cambi i potenziali parassiti al 99,9999%, quindi wombo-combo e povera pianta.
– Non ne ho idea, penso però che più che “grande” sarebbe figo conoscere il più “relativamente grande” 😀
Per chiudere il cerchio, la questione è decisamente poco chiara, soprattutto perchè non abbiamo idea di quante piante potrebbero attuare lo stesso meccanismo decisionale (e le piante a sto mondo sono un bel po’). Io stesso sono scettico sul fatto che una pianta possa “avere un cervello”, ma una volta che riduci tutto ad un livello non di “cos’hai”, ma di “come lo usi”, tutto diventa possibile in natura.
Non ho capito benissimo: in pratica questa pianta abortisce in preferenza il seme doppio? Ma così facendo non sacrifica anche il seme buono insieme a quello parassitato? Aka non butta via il bambino insieme all’acqua?
E perchè la larva non si dovrebbe sviluppare nel seme singolo?
Inquietanti interrogativi zoofilici…
Tia!
La larva si sviluppa anche nel seme singolo, ma può anche non farlo e questo pone la pianta col dubbio “lo buttiamo via oppure no? Magari ci va di culo, la larva non si sviluppa e il seme è salvo.” La larva può non svilupparsi per gli stessi mille motivi che possono inficiare ogni atto riproduttivo in natura, immagino, nell’articolo non è spiegato.
Quando il seme è doppio la pianta abortisce quello parassitato per salvare il suo gemello di ovario, che continua il suo sviluppo.
La forma mentis del crespino è riassumibile nella frase:”Finchè ne devo perdere uno solo, magari si può anche provare. Se ne devo perdere due, uno lo sacrifico così l’altro si salva.”.
Il tutto ovviamente sottostà alle condizioni ambientali che non sono mai da tralasciare.
Grazie!
Cosi è più chiaro.
Ora mi aspetto un articolo sulle piante pro-life!