Ho visto la luce

Dopo la immeritatissima pausa di inizio anno eccoci con un nuovo articolo scelto sulla base della sempreverde motivazione “mi piacevano le figure”. Con il primo post non lamantino del 2014 colgo l’occasione per ringraziare tutti voi che leggete, commentate o semplicemente linkate gli articoli per sembrare impegnati (non lo fate, non c’è nemmeno un tizio morto nei post). Mi state fornendo una scusa per chiudermi in casa nel finesettimana e leggere di bestie “eh macccc’hoilbloggggg”. Grazie davvero.

Cephaloscyllium ventriosum looking fab. Immagine modificata da Sparks et al. 2014

Cephaloscyllium ventriosum looking fab. Immagine modificata da Sparks et al. 2014

Cos’è un colore?

No, non voglio una definizione uscita dalla vanga penna di Fabio Volo, piuttosto qualche rimembranza di fisica. Quando la luce bianca colpisce un oggetto, questo assorbe parte della radiazione luminosa e ne riflette altra. Se steste indossando calzini viola, pantaloni gialli e maglietta blu, le tonalità che potreste osservare sarebbero, quindi, proprio i colori contenuti nella porzione di luce riflessa.

Ma direi che questo sarebbe l’ultimo dei vostri problemi.

In quanto esseri umani i nostri occhi possono vedere soltanto una piccola parte dello spettro elettromagnetico, chiamata regione del visibile, che va da 400 a 700 nanometri. Quest’area è a sua volta suddivisa in piccoli intervalli di determinate lunghezze d’onda associati ai colori che tutti conosciamo e amiamo (beh, non proprio tutti, alcuni colori derivano dalla sovrapposizione di lunghezze d’onda diverse, facenti comunque parte dello spettro visibile).

Sulla terra ferma la luce non incontra ostacoli particolari sul suo cammino e quindi possiamo dire di essere “viziati” con i colori. In mare la situazione cambia alla grande.

Quando la luce del sole penetra all’interno di un corpo d’acqua perde, gradualmente, alcune delle sue componenti che vengono assorbite dall’acqua e dalle particelle in sospensione. I primi colori ad andarsene sono il rosso e l’arancione, seguiti a ruota dal giallo e dal verde. Solo la porzione del visibile occupata dal blu (470-480nm) resiste fino a profondità di circa 300m.

Parte della radiazione elettromagnetica e le profondità mediamente raggiunte dalle varie lunghezze d'onda. Immagine

Parte della radiazione elettromagnetica e le profondità mediamente raggiunte dalle varie lunghezze d’onda. Immagine Brooks/Cole-Thomson 2005

Le creature che vivono in questi ambienti hanno quindi dovuto arrangiarsi con quella poca radiazione luminosa che gli giungeva dalla superficie. E lo hanno fatto sviluppando uno dei fenomeni più ganzi presenti in natura.

La biofluorescenza.

Molto spesso confusa per la sua parente più gloriosa, la bioluminescenza, la biofluorescenza non richiede la presenza di organi particolari per la produzione di luce. Questa caratteristica è il risultato dell’assorbimento della luce ad una lunghezza d’onda seguita dalla sua emissione ad una lunghezza d’onda maggiore, più povera di energia. Se, per ipotesi, assorbissi luce nella regione del blu, allora grazie alla biofluorescenza le tue emissioni sarebbero caratterizzate da luce verde, gialla o rossa, colori contraddistinti da ampie lunghezze d’onda.

Molti organismi diversi sono capaci di biofluorescenza e il mondo della biologia è grato soprattutto ad uno, la medusa Aequorea victoria, dalla quale è stata isolata la Green Fluorescent Protein (GFP), usata da tempo in laboratorio come marcatore.

Un posto interessante dove cercare la biofluorescenza è una barriera corallina. Questa struttura creata da piccolissimi animaletti chiamati polipi (SHOCK! Quelli che vi sgulvanate con l’insalata sono i polpi) è nota per ospitare decine di specie di pesci dai colori vivaci. Se non avete mai visto una barriera corallina pensate a “Alla ricerca di Nemo”. Nel film Pixar un pesce pagliaccio (Amphiprion ocellaris) con cure parentali straordinariamente sviluppate per la sua specie intraprende un viaggio accompagnato da un pesce chirurgo (Paracanthurus hepatus) mentalmente disturbato, con l’intento di recuperare la sua prole menomata.

Carino, ma “Dragon Trainer” lo umilia.

Lungo la strada la coppia conosce decine di coloratissimi abitanti del mare, ma neanche una delle numerose specie che preferiscono rimanere inosservate. Certo, uno scorfano non avrebbe attirato lo spettatore, ma almeno avrebbe agito come rappresentante dei numerosi pesci dalla colorazione blanda o poco interessante. Quando dico “colorazione”, però, mi riferisco allo spettro dei colori “di lusso” che abbiamo noi esseri umani, che ci permette di vedere il grigino di una anguilla o il marrone smorto di una bavosa. Questa ottica esclusivamente a misura d’uomo ci ha impedito di notare una cosa talmente eclatante che l’annuncio di 3 nuove serie Marvel non regge al confronto:

Questi pesci sono biofluorescenti.

Sì, lo sono da sempre. No, non ce ne siamo mai accorti.

B, ray (Urobatis jamaicensis); C, sole (Soleichthys heterorhinos)(Kaupichthys brachychirus); I, false moray eel (Kaupichthys nuchalis); J, pipefish (Corythoichthys haematopterus); K, sand stargazer (Gillellus uranidea)

B Urobatis jamaicensis, C Soleichthys heterorhinos, I Kaupichthys nuchalis; J Corythoichthys haematopterus,  K Gillellus uranidea. Immagine modificata da Sparks et al. 2014

Se vogliamo cercare delle attenuanti (e dobbiamo farlo), misurare la lunghezza d’onda della radiazione elettromagnetica emessa da un particolare corpo non è proprio immediato, ma richiede l’utilizzo di uno strumento apposito. Questo, a meno che non abbiate i Pink Floyd a portata di mano, sarà lo spettrometro.

John Sparks e gli altri autori di un articolo apparso questa settimana su PlosONE hanno fatto proprio questo.

Dopo essersi recati in posti inospitali come le Isole Cayman, le Isole Salomone e le Bahamas per raccogliere esemplari di diverse specie abitanti la barriera corallina, i ricercatori hanno provato a determinare quanto la fluorescenza fosse un fenomeno diffuso nei pesci, impiegando ricostruzioni filogenetiche (i soliti alberi basati sul DNA) e spettrometria.

I risultati hanno dato vita ad uno degli articoli di Plos con le foto più belle di sempre.

La biofluorescenza è risultata presente in 16 ordini, 50 famiglie, 105 generi e più di 180 specie diverse di pesci.

OK, ne avevamo persi parecchi.

Ecco...sì, c'è qualche pesce biofluorescente..

Ecco…sì, c’è qualche pesce biofluorescente… Immagine Sparks et al. 2014

Specie molto vicine tra loro in termini evolutivi e simili ad uno sguardo superficiale presentano fluorescenze estremamente diverse, mentre pesci poco colorati ad occhio nudo risplendono con le più spettacolari tonalità di rosso, arancione e verde. Quest’ultimo caso merita un’analisi più approfondita.

Molti pesci vedono tranquillamente i colori ma alcuni, in particolare quelli mimetici, possiedono anche dei filtri intraoculari speciali che li aiutano a visualizzare meglio le tonalità che si trovano a lunghezze d’onda ampie. Questa caratteristica sembrerebbe conferire loro un vantaggio non da poco: comunicazione segreta.

Un normale predatore che osserva una roccia potrebbe non notare quel ghiozzo marroncino triste, intento a sembrare parte del fondale. Il ghiozzo, dalla sua, sa che sta inviando un messaggio colorato visibile solo a chi ha la possibilità di recepirlo come, ad esempio, un suo potenziale partner.

Ma alcuni predatori, come gli squali, i filtri ottici li hanno.

Tuttavia la biofluorescenza permette ad alcune prede di portare il mimetismo ad un nuovo livello. Oltre ai pesci, altri organismi marini, come le alghe, producono emissioni colorate grazie a pigmenti come la clorofilla. Le zone ricoperte da questi organismi, a chi ha il colore giusto, l’ambiente perfetto per nascondersi anche ai predatori più tecnologici.

Scorpaenopsis papuensis con sfondo di alghe

Scorpaenopsis papuensis su sfondo di alghe rosse. Immagine modificata da Sparks et al. 2014

Dalle analisi di Sparks e colleghi è risultato però che anche alcuni pesci di profondità sono capaci di fluorescenza. La cosa sembra non avere senso. Là, nell’oscurità più completa, questi animali possiedono la capacità di risplendere ma, senza nemmeno il più flebile raggio di luce, non possono farlo. Tuttavia, come nella migliore tradizione dickensiana, un fantasma barbuto a cavallo di una Chelonoidis nigra deve avere suggerito un’ipotesi agli autori: magari questi animali non ne hanno bisogno, ma i loro antenati di acqua dolce sì.

E così i discendenti di questi animali di acque basse possiedono ora un carattere a loro totalmente inutile ma che a noi regala, per l’ennesima volta, la possibilità di capire più a fondo uno degli spettacoli più belli del mondo.

Che non vi dico qual è se no Dawkins mi fa causa.

FONTI

  • Sparks, J. S., Schelly, R. C., Smith, W. L., Davis, M. P., Tchernov, D., Pieribone, V. a., & Gruber, D. F. (2014). The Covert World of Fish Biofluorescence: A Phylogenetically Widespread and Phenotypically Variable Phenomenon. (D. Fontaneto, Ed.)PLoS ONE, 9(1), e83259.

  1. Andrea Pattaro

    Ciao, molto bello il blog… solo una noticina: con tutta probabilità il pesce di “Alla ricerca di Nemo” è il più comune Amphiprion ocellaris, piuttoscto che A. percula.

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