La biodiversità in campo

ResearchBlogging.orgIl dodo si è risvegliato ormai da un po’, e dopo lungo esilio anche il vostro Francesco Lami torna a scrivervi di un tema, fra l’altro, che gli è molto vicino; come sapete infatti, altro non sono che un contadino pretenzioso.

Cattura

Fotografia altamente simbolica ma in qualche modo noiosa. Immagine Fischer et al. 2008.

Ci fu quella volta che un noto esponente di un partito di scienziati e intellettuali disse che “con la cultura non si mangia”. Il soggetto venne chiaramente subito investito dall’ira di chi della cultura ha fatto la sua vita, e di chi ha fatto la sua vita del far finta di avere cultura quando in realtà passa i pomeriggi a guardare Il trono di spade, che tanto da un libro è tratto e si sa che i libri sono automaticamente arte . Se mi è però concesso di fare l’avvocato del diavolo, bisogna riconoscere che “cultura” è un concetto molto diversificato, e che non con tutte le culture se magna allo stesso modo. Un letterato può anche passare 10 anni a concepire e rifinire l’opera della sua vita, ma se provate ad addentarla non avrete una gran soddisfazione dal punto di vista nutrizionale, a meno che non siate tisanuri.

Un tipo di cultura di cui letteralmente può rimpinzarsi il pubblico è invece la produzione agricola. Questa generalmente non viene in mente quando si parla di “cultura” in effetti, soprattutto perché i contadini alla fine di una dura giornata hanno un odore rustico e tendono a non venire invitati ai salotti letterari. Ciononostante mangiare non è opzionale per nessuno, ci sono più di 7 miliardi di bocche da sfamare e l’agricoltura porta sulle spalle la maggior parte di questo peso, quindi non dovrebbe stupire sapere che un bel po’ di risorse intellettuali vengono impiegate nello studiare modi sempre più efficienti per riempirsi la pancia.


E qui sorge un problema: le risorse non sono infinite. La popolazione aumenta, la fame pure ma la terra diminuisce. L’agricoltura sostiene l’umanità ma allo stesso tempo erode le risorse da cui dipende, ed è fonte di molti dei più grandi problemi ambientali che ci troviamo ad affrontare. Uno di questi problemi è, ad esempio, l’impatto sulla biodiversità. In effetti le problematiche agricole legate alla biodiversità sono due: in primo luogo, le varietà di piante coltivate e animali allevati sono esse stesse biodiversità. Purtroppo questa diversità è molto esigua e tende a diventarlo sempre di più man mano che si espandono le monocolture, il che porta all’insorgere di tutta una serie di problemi che non saranno qui affrontati perché ci si potrebbero scrivere altri dieci post senza esaurirli. L’altra questione è rappresentata dall’impatto che le pratiche agricole hanno sulla diversità e l’abbondanza degli animali, delle piante e dei microrganismi selvatici. Infatti, se siete un fiore spontaneo, una leggiadra farfalla o anche qualcosa di meno effemminato ma comunque adattato a un certo ambiente, con un certo grado di complessità strutturale (leggasi: tante piante e rocce ecc…) e certi parametri biofisici (temperatura, umidità, nutrienti nel suolo…), l’improvviso ritrovarsi in un enorme e monotono campo di mais che si stende a perdita d’occhio potrebbe non farvi bene alla salute, specie se vi spruzzano anche addosso ogni sorta di pesticidi e fertilizzanti.

Come ridurre quindi gli effetti negativi dell’agricoltura sulla biodiversità selvatica? Qui entrano in gioco due scuole di pensiero scientifico. C’è infatti chi propone di adottare tecniche agricole meno intensive, riducendo al massimo l’uso di sostanze e pratiche dannose per l’ambiente, in modo da conservare la maggior quantità possibile di biodiversità all’interno dei campi coltivati, e riducendo le monocolture in favore di piccoli appezzamenti ciascuno dedicato a una diversa varietà di pianta, in modo da aumentare l’eterogeneità del territorio. La produzione di cibo e la conservazione della biodiversità diventerebbero quindi un tutt’uno. E perché no in effetti? Il fatto che nelle aziende a conduzione biologica generalmente la biodiversità di piante, animali e microrganismi sia molto superiore rispetto alle aree a coltivazione intensiva sembra testimoniare a favore della validità di questo metodo, denominato “land sharing” (condivisione della terra).

Schema di confronto fra il land sparing e il land sharing, che non ho intenzione di spiegare più di così. Immagine di Fischer et al., 2008.

Schema di confronto fra il land sparing e il land sharing, che non ho intenzione di spiegare più di così. Immagine Fischer et al. 2008.

Visto che però il mondo non è buono e tendenzialmente non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, molta gente ha fatto sorgere un’obiezione non da poco: in molti casi, la produttività delle colture biologiche e affini è inferiore rispetto a quella delle colture tradizionali, che si dopano di fertilizzanti, prendono a calci in faccia i parassiti con pesticidi e insetticidi vari e aumentano l’efficienza in maniera robotica coltivando acri su acri nello stesso modo. Questo significa che a parità di produzione, l’agricoltura biologica deve impiegare un’estensione di terra maggiore di quella tradizionale. La biodiversità nei campi coltivati con l’approccio “land sharing” sarà pure elevata, ma di certo è molto inferiore a quella che si può trovare negli ambienti naturali intatti; non sarebbe quindi meglio, forse, praticare un’agricoltura intensiva al massimo nelle aree coltivate, in modo da ridurre la necessità di terra e quindi lasciare il maggior spazio possibile agli ambienti naturali? In questo approccio, denominato “land sparing” (risparmio di terra) le pratiche agricole e la conservazione vengono nettamente separate: la biodiversità viene estremamente ridotta nei campi, ma rimane in tutto il suo splendore in grandi aree intonse.

Negli ultimi anni, forse anche a causa del fatto che gli hipster vegani sostenitori del biologico stanno un po’ sulle palle a tutti, è uscito un certo numero di ricerche che sembrano dimostrare come in molti casi l’approccio del land sparing sia più efficace del land sharing nella conservazione della biodiversità. Tanto per citare un paio di esempi, le piante del Pennsylvania e gli alberi e gli uccelli dell’India e del Ghana probabilmente sarebbero d’accordo con queste conclusioni. Evviva, abbiamo un vincitore, la biodiversità è salva, i mangiatori di tofu sono stati sconfitti e possiamo tutti andare alla cerimonia di premiazione su Yavin IV. Peccato che in ecologia nulla è così semplice, e a ogni colpo di scena ne segue invariabilmente un altro.

“Sono Andrea Brunelli (LINK A TE STESSO MEDESIMO), non mangio carne, gne gne gne! Adesso fanno dei FILM sui supereroi Marvel? Credo che resterò fedele ai fumetti, grazie! Gne gne gne!” – cit. Andrea Brunelli, Autobiografia*

“Sono Andrea Brunelli, non mangio carne, gne gne gne! Adesso fanno dei FILM sui supereroi Marvel? Credo che resterò fedele ai fumetti, grazie! Gne gne gne!” – cit. Andrea Brunelli, Autobiografia*

Secondo altri ricercatori, infatti, le conclusioni dei sostenitori del land sparing sarebbero troppo semplicistiche, e non terrebbero conto della complessità del mondo reale. Tanto per dirne una, non sempre le monocolture e l’agricoltura tradizionale garantiscono una maggiore produttività per ettaro; a seconda del contesto geografico e delle tecniche impiegate, le piccole aziende a coltura diversificata possono avere una produttività uguale o superiore all’approccio intensivo, cosa che capita ad esempio soprattutto in ambiente tropicale; in questi casi, ovviamente, l’approccio del land sharing è superiore a quello del land sparing. Un altro fattore da tenere in considerazione nel pianificare la conduzione agricola è il fatto che la biodiversità selvatica presente nei campi coltivati non è una semplice decorazione per rendere il tutto meno deprimente, come può esserlo Jennifer Lawrence in American Hustle; la biodiversità infatti è garante di numerosi servizi ecosistemici utili all’uomo quali possono essere l’impollinazione, la lotta agli organismi dannosi e il ricircolo di nutrienti nel terreno. Nel land sparing, eliminare tutti i preziosi insettini, funghetti, protozoi e piantine che rendono questo possibile significa rinunciare a una parte della produttività – a meno di non voler spendere ulteriore denaro e risorse. Infine, i ricercatori fanno anche notare come la principale causa di fame nel mondo non siano le rese delle colture, che non ci sarebbe affatto bisogno di intensificare, ma l’allocazione delle risorse e lo spreco del cibo – ma questa è un’altra storia.

“Ehilà, sono un’ape, la poster girl dell’impollinazione” – Immagine Wikimedia Commons.

“Ehilà, sono un’ape, la poster girl dell’impollinazione” – Immagine Wikimedia Commons.

Ma allora che si fa? La risposta, come sempre in ecologia, è “dipende dai casi”. Aree diverse hanno diverse caratteristiche topografiche, fisiche, chimiche e climatiche che influiscono sulla biodiversità e sulla produttività delle colture. In certi contesti il miglior compromesso fra i due aspetti è garantito dall’approccio del land sharing, mentre in altri da quello del land sparing, anche a seconda di quale gruppo di organismi ci interessa conservare. Per esempio, a riprova di come nella conservazione biologica sia utile un’accurata pianificazione basata sui fatti più che darsi alla tifoseria di una o dell’altra idea, alcuni ricercatori hanno misurato la biodiversità delle farfalle in campi convenzionali, campi biologici e aree naturalistiche dell’Inghilterra; da questi dati hanno concluso che per la conservazione dei lepidotteri il land sparing diventa più efficace del land sharing se la resa dell’agricoltura biologica è inferiore all’87% di quella convenzionale, ma solo se le aree naturali “risparmiate” in questo modo sono riserve protette. Se le aree risparmiate sono invece semplici margini a vegetazione spontanea non protetti, il land sharing è migliore del land sparing ogni volta che la resa dell’agricoltura biologica è superiore al 35% di quella convenzionale.

Chiaramente, l’impatto diretto sulla biodiversità selvatica non è l’unica conseguenza ambientale dell’agricoltura da tenere in conto quando si devono prendere decisioni operative. Delle altre problematiche però parleremo forse un’altra volta; per ora potete andare dal fruttivendolo e metterlo in difficoltà chiedendogli se dal punto di vista della conservazione dei coleotteri carabidi sono meglio le sue zucchine convenzionali o biologiche.

*Potrebbe non essere accaduto.

FONTI

Egan, J., & Mortensen, D. (2012). A comparison of land-sharing and land-sparing strategies for plant richness conservation in agricultural landscapes Ecological Applications, 22 (2), 459-471 DOI: 10.1890/11-0206.1
Fischer, J., Brosi, B., Daily, G. C., Ehrlich, P. R., Goldman, R., Goldstein, J., Lindenmayer, D. B., Manning, A. D., Mooney, H. A., Pejchar, L., Ranganathan, J. & Tallis, H. (2008). Should agricultural policies encourage land sparing or wildlife-friendly farming?. Frontiers in Ecology and the Environment, 6(7), 380-385.
Hodgson, J. A., Kunin, W. E., Thomas, C. D., Benton, T. G., & Gabriel, D. (2010). Comparing organic farming and land sparing: optimizing yield and butterfly populations at a landscape scale. Ecology Letters, 13(11), 1358-1367.
Phalan, B., Onial, M., Balmford, A., & Green, R. E. (2011). Reconciling food production and biodiversity conservation: land sharing and land sparing compared. Science, 333(6047), 1289-1291.
Tscharntke, T., Clough, Y., Wanger, T. C., Jackson, L., Motzke, I., Perfecto, I., Vandermeer, J. & Whitbread, A. (2012). Global food security, biodiversity conservation and the future of agricultural intensification. Biological Conservation, 151(1), 53-59.

  1. Fernando Lami

    Perfettamente d’accordo col concetto del “dipende dai casi” che ovviamente a sua volta dipende molto dal “dipende dalle condizioni oro-idrografiche, geologiche e climatiche”. In natura c’è una scelta tra tipologie ed intensità di land sharing che precede qualsiasi decisione dell’uomo. In Italia, ad esempio, il microclima può variare radicalmente a seconda dell’orientamento dei versanti di una collina o della composizione del suolo. Il che significa che può variare da un campo all’altro, in poche centinaia di metri o anche meno. Suppongo che nell’outback australiano o nel Corn Belt degli USA la situazione sia completamente diversa. Questo mi fa ritenere che in agricoltura sarebbe ottimale un certo grado di “dirigismo” statale. In parole povere i proprietari dei terreni agricoli non dovrebbero essere completamente liberi di coltivare ovunque quello che vogliono, magari in base a dubbie considerazioni di redditività temporanea o per seguire transitorie mode dei consumi, ma dovrebbero essere tenuti ad adottare le colture in base ad una classificazione ed anagrafe generale dei singoli terreni agricoli, decisa in base ai più condivisi ed attendibili criteri, non esclusi quelli da te ricordati nell’articolo.

  2. Pingback: Il dio del sole | IL VOLO DEL DODO

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